Gandhi fu un personaggio veramente eccezionale: egli riuniva in sé l’avvocato professionalmente
corretto sempre pronto a difendere i più deboli, il combattente nonviolento per
i diritti e la libertà, il politico finissimo, l’accorto diplomatico, lo scrittore
e giornalista e l’asceta profondamente
religioso.
Einstein alla morte di Gandhi scrisse:
E’
probabile che le generazioni future
faranno fatica a credere che una persona
così abbia mai camminato, in carne e ossa, su questa terra
mentre i suoi contemporanei
testimoni del suo stile di vita, della sua immensa dedizione agli altri e del suo profondo spirito religioso gli
attribuirono l’appellativo di Mahatma,
Alcuni lati del suo
carattere possono essere discutibili, alcune sue prese di posizione non condivisibili,
ma il suo ruolo nella storia dell’India e dell’intera umanità non può essere
messo in discussione. Dopo Gandhi l’umanità è più ricca e, anche se i suoi ideali sono purtroppo
ancora un’utopia, mi sento di affermare che soltanto nella realizzazione di questi ideali c’è la
salvezza dell’umanità.
Vorrei introdurre il seminario con un rapido
percorso attraverso la vita ed il pensiero di Gandhi, per fermarmi nella
seconda parte su quanto rimane oggi dell’eredità di Gandhi, su come il suo
pensiero ancora attuale può
guidarci nei cambiamenti che prima o poi saremo costretti ad affrontare.
Mohandas Karamchand
Gandhi -
questo è il suo nome completo - nacque il 2 ottobre
L’unica impressione che abbia mai destato nella mia mente è
quella della santità.
Come si usava ai suoi tempi, quando Mohandas non
aveva ancora 14 anni furono celebrate le nozze tra lui e la coetanea Kasturba dalla quale avrà quattro figli
e con la quale vivrà per più di sessant’anni. Nel suo diario ci narra la sua
esperienza di scolaro e giovanissimo marito, diviso tra i doveri scolastici ed
il desiderio di stare con la moglie, per la quale sviluppò ben presto
un’intensa passione. Finite le scuole superiori, proseguì gli studi a Londra
dove conseguì il titolo di procuratore legale. Gandhi desiderava andare in
Inghilterra: egli voleva vedere nel loro paese quegli
uomini bianchi e alti che avevano conquistato l’India, voleva capire che cosa facesse di questo popolo il
dominatore del suo paese. A Londra fece
il suo primo incontro con il cristianesimo, ma contemporaneamente alcuni
studiosi inglesi lo misero di fronte
alla ricchezza della cultura indiana che
egli aveva trascurato durante gli studi in India, dove i programmi scolastici
imposti degli inglesi privilegiavano lo studio della cultura occidentale.
Tornato in patria ebbe difficoltà ad iniziare la
carriera di avvocato e, dopo un periodo di quasi completa inattività, accettò
un’offerta di lavoro che lo condusse in Sud Africa. Qui per la prima volta
venne direttamente in contatto con il comportamento razzista nei confronti
degli indiani diffuso tra i coloni inglesi e conobbe le leggi che mantenevano
gli indiani in posizione di inferiorità rispetto ai bianchi. Fu un’esperienza
traumatica che cambiò la sua vita, spingendolo verso la politica che scelse
come mezzo per difendere i diritti dei più deboli.
Da quel momento il Sud Africa divenne per lui la
fucina dove si caratterizzò la sua etica professionale e dove cambiò il suo
stile di vita che divenne via via più semplice ed austero. Lì nacque il suo
bisogno di lavorare per gli altri, in particolare per i più poveri e deboli, lì
elaborò e sperimentò il suo metodo di lotta non violenta - la disobbedienza civile
e la resistenza passiva - che egli chiamò satyagraha (la forza della verità) e che lo porterà a vincere le
numerose battaglie intraprese in Sud Africa e che più tardi utilizzerà in India
per ottenere la libertà. Lì dopo profondi
contatti con amici cristiani che cercarono di convertirlo, rinsaldò la sua fede nell’induismo. Lì fece
voto di castità e imparò a vivere con la
moglie come con un’amica arricchendo sempre più la loro comunione spirituale.
Lì fondò per la prima volta un ashram
-
un luogo dove persone unite da ideali condivisi, vivono una vita comunitaria e
seguono una particolare disciplina - e
negli ashram visse per lunghi anni
con la sua famiglia e con alcune
famiglie amiche. Lì fece esperienza diretta degli orrori della guerra partecipando con un corpo di infermieri
volontari alla guerra boera ed alla
rivolta degli Zulù. Egli si considerava un suddito fedele dell’impero
britannico: come tale combatteva per avere gli stessi diritti di tutti i
sudditi, ma sentiva di avere gli stessi doveri. In Sud Africa sperimentò per la prima volta la detenzione
nelle carceri inglesi - che chiamava gli alberghi di sua
maestà - dove durante i lunghi
anni di lotta avrebbe passato più di sei
anni: 249 giorni in Sud Africa e
Partendo dall’India pensava di fermarsi
in Sud Africa per un anno, vi rimase per più di vent’anni con la
famiglia che portò con se quando si rese conto che sarebbe rimasto a lungo in
quel paese. Quando lasciò il Sud Africa aveva dimostrato l’efficacia del satyagraha ed aveva ottenuto
per gli indiani almeno una parte dei diritti per i quali si era battuto.
Gandhi partì da Durban il 18 luglio 1914 diretto
a Londra dove avrebbe dovuto incontrare Gopal
Krishna Gokale, uno dei massimi rappresentanti della politica indiana, che in quel periodo era in Europa.
Arrivò a Londra il 6 agosto: la prima guerra
mondiale della quale egli non aveva avuto alcun sentore era stata dichiarata pochi
giorni prima. Anche in questa occasione Gandhi decise di dare il suo sostegno
all’Inghilterra, come aveva fatto in Sud Africa, con un corpo di infermieri
volontari che reclutò tra i giovani indiani che vivevano a Londra. Come allora si
considerava un fedele suddito dell’Inghilterra e riteneva il suo appoggio un dovere; egli inoltre pensava ancora che l’“India avrebbe potuto ottenere la completa emancipazione solo entro e
attraverso l’impero britannico”.
Tuttavia giustificare questa scelta fu per lui
difficile:
Tutti noi
riconoscevamo l’immoralità della guerra. Se non ero disposto a procedere contro
il mio aggressore, tanto meno avrei voluto partecipare ad una guerra,
soprattutto non sapendo nulla della giustizia o ingiustizia della causa dei
combattimenti. Gli amici naturalmente sapevano che avevo già partecipato alla
guerra boera, ma supponevano che le mie opinioni avessero subito un mutamento.
A dire il vero lo stesso criterio di
ragionamento che mi aveva persuaso a partecipare alla guerra boera ebbe il suo
peso in questa occasione. Mi era perfettamente chiaro che la partecipazione
alla guerra non poteva conciliarsi con l’ahimsa, la nonviolenza. Ma non sempre
è dato di vedere con uguale chiarezza i propri doveri. Un seguace della verità
è spesso costretto a brancolare nelle tenebre.
La sua partecipazione alla guerra fu breve,
presto interrotta da una grave forma di pleurite che lo costrinse a letto per
un lungo periodo. Quando stette meglio i sui amici lo convinsero a
lasciare l’Inghilterra dove difficilmente avrebbe potuto superare l’inverno. Il
19 dicembre 1914 si imbarcò con Kasturba sulla nave Arabia diretta a Bombay, dove fu accolto con grande entusiasmo dal
mondo politico, rappresentato soprattutto dall’Indian National Congress, il
principale partito politico indiano del quale Gandhi divenne ben presto il leader,
e da tutti gli indiani che avevano
saputo delle sue battaglie in Sud Africa.
Prima di entrare nel vivo della politica
organizzò la sua vita in India: fondò come aveva fatto in Africa un ashram,
l’ashram Satyagraha, vicino alla città di Amenabad e poi trasferito sulle rive de fiume Sabarmati. Con questo nome dice Gandhi “desideravo far conoscere il metodo che avevo sperimentato in Africa e
verificare in India fino a che punto ne fosse possibile l’applicazione”.
Cominciò ad applicarlo poco dopo la fine della
guerra quando il governo coloniale trasformò dei provvedimenti temporanei
introdotti durante il periodo bellico in una legge permanente: la legge Rowlat.
Si trattava di provvedimenti restrittivi di molte libertà civili. Contro questa
legge, secondo Gandhi ingiustificata, egli proclamò uno sciopero generale al
quale aderì tutta l’India e che si svolse quasi ovunque senza incidenti. In
alcune città tuttavia qualche incidente
ci fu e ad Amristar una città del Punjab
gli incidenti - peraltro provocati dagli inglesi con l’arresto immotivato di
due membri del Congress – furono seguiti da una reazione violenta da parte del governo
della città, che chiamò in aiuto l’esercito il quale provocò una strage, e dall’introduzione di
provvedimenti umilianti per la popolazione indiana.
I fatti di Amristar determinarono una svolta nel
comportamento di Gandhi che da suddito fedele dell’impero diventò il leader
della lotta per l’indipendenza dell’India. Egli stesso spiegò la sua svolta
durante il processo seguito al suo primo arresto con un famoso discorso di
autodifesa. Fu l’unico processo che Gandhi subì: i successivi arresti lo
avrebbero portato in prigione senza processo e senza condanna.
Uno degli episodi più spettacolari ed efficaci
della lotta nonviolenta condotta da Gandhi per l’indipendenza dell’India fu la
marcia del sale:
Da questo momento il destino
dell’impero britannico fu segnato: la strada per l’Indipendenza dell’India era arrivata
al punto senza ritorno. Siamo negli anni 1930-1931: l’indipendenza era ancora
lontana, sarebbe costata a Gandhi altri periodi in carcere, diversi digiuni ed
alcune battaglie perse, in particolare quella contro la divisione dell’India in
uno stato indù e uno mussulmano, ma finalmente il purna swaraj sarebbe arrivato.
Per Gandhi il
raggiungimento dell’indipendenza per la quale si era battuto per lunghi
anni, fu un momento drammatico e tristissimo: quando nella notte
tra il 14 ed il 15 agosto 1947 Nehru proclamò la nascita della repubblica
indiana indipendente, Gandhi era a Calcutta e dormiva ed il giorno dopo
non partecipò alle celebrazioni. Vedere
l’India divisa e indù e musulmani ammazzarsi
tra loro nelle zone di confine tra India e Pakistan fu per lui una sconfitta: non era riuscito ad
evitare la vivisezione dell’India, e non era riuscito a far capire ai suoi
concittadini il valore dalla nonviolenza.
Dopo due drammatici digiuni, prima a Calcutta poi
a Delhi. che ebbero il potere di portare la pace tra le comunità religiose, la
sera del 30 gennaio 1948 pochi giorni dopo la fine del digiuno di Delhi, Gandhi
fu ucciso con tre colpi di pistola mentre stava per iniziare la cerimonia della
preghiera serale collettiva. L’assassino di Gandhi era un giovane fanatico
indù. La pistola una Beretta.
La morte
del Mahatma fu annunciata al paese da Nehru con un breve discorso alla radio:
La luce ha
abbandonato le nostre vite ed ovunque regna il buio, e io non so bene che cosa
dirvi e in che modo. La nostra amata
guida, Bapu come noi lo chiamavamo, il padre della nostra nazione non è più. Forse sbaglio a dire questo; comunque sia, non
lo vedremo più come lo abbiamo visto per tutti questi anni. Non correremo da
lui a chiedere consiglio e a cercare
conforto, e questo è un terribile colpo non solo per me ma per milioni e milioni di questo paese. Ed
è difficile addolcire questo colpo con i consigli che io o altri possiamo
tentare di offrirvi.
Ho detto
che la luce ci ha abbandonato, ma mi sbagliavo, perché la luce che ha brillato
su questo paese non era una luce comune. La luce che ha illuminato per molti
anni questo paese continuerà ad
illuminarlo per molti anni, e fra mille anni la si vedrà ancora in
questo paese, e il mondo la vedrà, ed essa consolerà innumerevoli cuori. Poiché
quella luce rappresentava la verità vivente, e l’uomo eterno era con noi con la
sua eterna verità, a ricordarci quale è la retta via, a salvarci dall’errore, a
condurre questo antico paese alla libertà.
Tutto
questo è successo. Rimane ancora molto da fare. Non potremmo mai pensare che
egli non fosse necessario o che avesse esaurito il suo compito. Ma ora,
soprattutto, quando i problemi sono così numerosi, che egli non sia qui con noi
è una disgrazia assolutamente terribile che dobbiamo sopportare.
Della luce della quale ha parlato Nehru, di quella
luce che ha brillato sull’India per molti anni che cosa rimane qui tra noi,
nel nostro mondo, nel nostro tempo?
Ad un primo sguardo alle ingiustizie, alle guerre
e alle violenze che oggi, dopo quasi sessant’anni dalla morte del Mahatma
Gandhi ancora dominano la scena del mondo, potremmo dire che di quella luce non
rimane più nulla, che la fiamma che la alimentava si è spenta. Viviamo in un periodo terribile che, sempre ad
un primo sguardo, non dà speranza. Ma la
fiducia nella nonviolenza che ha guidato
la vita di Gandhi, le sue battaglie e il
suo pensiero non dove essere abbandonata: la nonviolenza è più potente e più
diffusa di quanto non si veda e non si pensi, siamo noi che spesso non la
vediamo. Ecco che cosa ci dice Gandhi:
Il fatto
che vi siano ancora tanti uomini vivi nel mondo, dimostra che esso si fonda non
sulla forza delle armi ma sulla forza della verità e dell’amore. Perciò la
prova maggiore e più inattaccabile dell’efficacia di questa forza si trova nel
fatto che nonostante le guerre del mondo esso continua a vivere.
L’esistenza di migliaia, anzi di decine di
migliaia di individui dipende dall’azione molto intensa di questa forza. Piccoli litigi nella vita
quotidiana di milioni di famiglie scompaiono davanti all’esercizio di essa.
Centinaia di nazioni vivono in pace. La storia non prende atto, né lo può, di
questo fatto. La storia in realtà è la testimonianza di ogni interruzione della
costante attività della forza dell’amore o dello spirito. Due fratelli
litigano; uno si pente e ravviva l’amore che dormiva in lui; i due ricominciano
a vivere in pace; nessuno ne prende atto. Ma se i due fratelli per l’intervento
degli avvocati o per qualche altra ragione ricorressero alle armi o alla legge - che è
un’altra forma di manifestazione della forza bruta - le loro
vicende sarebbero immediatamente riportate dalla stampa, diventerebbero la
favola dei vicini e probabilmente passerebbero alla storia. E quello che vale
per le famiglie e le comunità vale per le nazioni. Non vi è ragione di credere
che vi sia una legge per le famiglie e un’altra per le nazioni. La storia, allora, è la testimonianza di una
interruzione della forza della natura. La forza dello spirito, essendo naturale
non è registrata dalla storia.
…….Ma forse la storia sta cominciando a
registrare qualche piccolo evento sostenuto da questa forza, forse possiamo affermare che
della grande luce che Gandhi ha diffuso sul mondo, alcune fiammella ardono ancora. Ma dobbiamo imparare a vederle e a farle vedere a chi non ha fiducia, e dobbiamo
cercare di mantenerle in vita e di ravvivarle con un soffio di energia.
Ecco un esempio: in Palestina, dopo anni di
terrorismo e di guerra è nato un movimento di resistenza nonviolenta, di
ispirazione gandhiana. Deve vincere l’odio ormai radicato tra israeliani e
palestinesi, deve vincere l’abitudine alla violenza ed alla morte, ma può
farcela. La violenza non ha portato altro che violenza, non ha fatto altro che
esasperare la situazione. Forse sta per arrivare il momento della nonviolenza.
Pochi mesi fa si è recato in Palestina per portare il suo appoggio al movimento
nonviolento fa un nipote di Gandhi, Arun Gandhi, figlio del secondogenito Manilal che era rimasto in Sud Africa, fondatore e animatore del MK Gandhi Institute
for Nonviolence, un centro di studi per la nonviolenza e la pace negli Stati
Uniti.
Ma non è necessario andare lontano. In Italia ci
sono stati numerosi seguaci delle idee di Gandhi: vi faccio alcuni i nomi:
Lanza del Vasto, Capitini, Lorenzo Dilani,
e da qualche anno sono nati in
Italia -
a Firenze e a Pisa - dei corsi di laurea dedicati alla scienza
della pace ed i libri utilizzati sono i testi classici sulla nonviolenza di
diversi autori, tutti ispirati a Gandhi.
In Italia ci sono numerosi movimenti e
associazioni che si ispirano a Gandhi. Questi movimenti lavorano a tanti livelli, si battono per la
pace, per il disarmo, contro il commercio delle armi e per la conversione delle
fabbriche di armi, per la riconciliazione nei paesi che escono da sanguinosi
conflitti, per la protezione dell’ambiente….
Molto importanti sono i gruppi che lavorano nel
campo della didattica per portare nelle scuole, tra i bambini ed i ragazzi la
cultura della nonviolenza, l’educazione alla pace. Fanno interventi nelle
scuole o organizzano corsi per gli insegnanti.
Partire dai ragazzini è importantissimo: sono
loro il futuro. Per i bambini, per i ragazzi scoprire che è possibile trovare una soluzione pacifica dei
conflitti che ogni giorno nascono tra
loro o con gli adulti, è una scoperta
che può cambiare la vita. Scoprire che
non ci deve essere per forza un vinto ed un vincitore, che da un conflitto può
nascere non soltanto un accordo ma addirittura un’amicizia, dà una grande fiducia in se stessi. E più grande
diventa il numero di ragazzi che sono
messi in grado di fare questa scoperta,
più grande sarà il cambiamento nella società futura. L’idea
si allargherà a macchia d’olio, arriverà ad influenzare chi ha il
potere, chi governa il mondo.
L’educazione alla nonviolenza non ha bisogno di
un corso dedicato: può essere inserita in tantissimi contesti, dall’italiano
alle scienze, dalla storia all’ecologia. Può approfittare della composizione
delle classi dove i bambini che vengono da paesi lontani e da culture diverse
sono sempre più numerosi, può prendere spunto da un fatto del giorno o da un racconto
del passato.
Ma la violenza ha tante facce, i conflitti e le
guerre sono soltanto la manifestazione più visibile della violenza presente
nella nostra società. Una forma di
violenza che ha conseguenze drammatiche è
il possesso. Gandhi viveva in estrema povertà e sosteneva che ogni oggetto
superfluo che ciascuno di noi possiede è un furto perché porta via ad un altro
la possibilità di avere qualche cosa di necessario alla sua sopravvivenza.
Queste sono parole sue:
La madre
terra ha risorse sufficienti per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di
qualcuno
Ed è proprio per soddisfare la sua avidità che il
mondo occidentale vive a spese del sud del mondo, si appropria delle risorse che dovrebbero essere
disponibili per tutti e cerca di assicurarsi il controllo di queste risorse per
il futuro, con tutti i mezzi, senza pensare che le risorse non sono infinite.
Possiamo fare qualche cosa per cambiare
direzione, possiamo trovare una guida per il nostro futuro nella vita di Gandhi
e nelle sue parole?
Una delle battaglie più importanti condotte da Gandhi per il futuro autogoverno
dell’India, è quella per il riscatto dei villaggi. Prima di entrare in politica
egli ha viaggiato a lungo per l’India, per rendersi conto delle condizioni
nelle quali la maggior parte degli indiani viveva. Durante questi viaggi è
venuto direttamente in contatto con il terribile stato di povertà nel quale
vivevano gli abitanti dei 700.000 villaggi indiani e si è reso conto che la
causa di questa povertà era da ricercarsi nella dominazione inglese. I villaggi erano lontani dalle città, i
rappresentanti dei governi arrivavano soltanto al momento della riscossione
delle tasse ed i villaggi erano amministrati dal consiglio degli anziani, le
controversie erano risolte da una sorta di tribunale popolare. Da secoli durante i mesi di inattività tipici
del lavoro agricolo i contadini si dedicavano a diversi lavori artigianali tra i quali i più
diffusi erano la filatura e la tessitura a mano del cotone ed il il khādī
- il tessuto prodotto con questo lavoro – veniva venduto sui mercati
dell’India e anche fuori dall’India. Ma
il khādī non aveva
retto alla concorrenza dei tessuti prodotti nelle industrie inglesi che avevano
invaso i mercati indiani e i contadini avevano perso una fonte di guadagno
sicura riducendosi in molte regioni dell’India ad uno stato di povertà e di
prostrazione che sconvolgeva Gandhi:
Quanto più
penetro nei villaggi, tanto maggiore è l’impressione penosa che provo
incontrando gli occhi vacui dei nostri contadini. Non avendo altro da fare che
soffrire e lavorare come schiavi accanto ai loro buoi, essi sono diventati
quasi come loro.
E l’immagine degli “scheletri dietro ai buoi” che incontrava nelle campagna non lo
abbandonava e lo ha portato a promuovere il ritorno del lavoro artigianale nei
villaggi, in particolare la filatura e
tessitura, con il famoso movimento del charka, e a concepire un programma per
promuovere il riscatto dei villaggi, il “Programma Costruttivo”.
Muovendosi
a piedi da villaggio a villaggio Gandhi illustrava ai contadini questo
programma la cui realizzazione avrebbe
consentito ai villaggi stessi di riscattarsi dalla povertà e dal degrado e di
ritrovare l’autonomia economica ed amministrativa della quale un tempo godevano.
Il modello economico di Gandhi nato per il
villaggio indiano, è studiato oggi da diversi economisti come
un’alternativa al mercato globale.
Le teorie economiche sulle quali si basa il
mercato globale non tengono conto del
fatto che le risorse disponibili si
stanno esaurendo, che il miglioramento delle tecnologie potrà portare ad un risparmio temporaneo di
queste risorse, ma non potrà permettere il loro utilizzo all’infinito e non
potrà impedire il progressivo degrado
dell’ambiente, anzi l’introduzione di nuova fonti di energia non farebbe che
accelerarlo.
L’idea di sviluppo sostenibile nella quale per
anni abbiamo creduto non è realistica: le parole stesse sviluppo e sostenibile
sono in contraddizione, ed alcuni economisti oggi non ne parlano più ma parlano di “decrescita sostenibile” che significa
abbassare il tenore di vita dei paesi ricchi (il nostro tenore di vita) e
alzare quello dei paesi poveri e questi
economisti guardano a Gandhi.
Il fine del modello economico fondato sulla decrescita, è il benessere di tutti,
contrapposto a quello di pochi che - come dice Gandhi - “rubano” agli altri.
Questo tipo di economia è il presupposto per superare l’enorme ingiustizia che
caratterizza il mondo globale e divide l’umanità in due parti: chi ha e chi non ha e per realizzare una
società nonviolenta, nella quale il motore non sia il danaro ma la solidarietà.
Le idee per realizzarlo sono le idee che Gandhi
ha applicato alla sua vita, alla vita degli ashram
e che ha cercato di realizzare nei villaggi
dell’India.
Gandhi non
credeva nella civiltà industriale e trovava utili solo quelle macchine che
possono rendere più facile il lavoro di tutti i giorni nelle case e nei
villaggi, non quelle che portano ad un aumento continuo della produzione di
oggetti, sfruttando il lavoro di pochi e
togliendo il lavoro a migliaia di persone.
Mi oppongo
alla “follia” della macchina, non alla macchina come tale. La follia riguarda
le cosiddette macchine risparmiatrici di lavoro. Gli uomini continuano a
“risparmiare lavoro” fino a che migliaia
di individui rimangono senza lavoro e sono gettati sulle pubbliche strade a
morire di fame. Voglio economizzare
tempo e lavoro non per una frazione dell’umanità, ma per tutti; voglio l’accentramento dei beni non nelle
mani di pochi, ma nelle mani di tutti. La macchina oggi serve solo a far salire
i pochi sulla schiena delle moltitudini. L’impulso che sta dietro tutto questo
non è risparmiare lavoro per amore degli uomini, ma avidità. [….]
Le macchine
hanno il loro posto, si sono affermate.
Ma non bisogna permettere che sostituiscano il necessario lavoro umano. Un
aratro perfezionato è una bella cosa. Ma
se, per un caso, un tale da solo grazie ad una sua invenzione meccanica
riuscisse ad arare tutto il terreno dell’India e controllasse tutta la
produzione agricola e se gli altri milioni di individui non avessero altra
occupazione essi sarebbero in pericolo di fame e nell’ozio, diventerebbero dei
somari , come molti sono già diventati.
Questa idea della macchina che risparmia ore di
lavoro è entrata nel nostro modo di pensare come un’idea giusta. Ci sembra
assurdo vedere una decina di persone che in una giornata fanno un lavoro che
una macchina potrebbe fare in un’ora, azionata da una o due persone al massimo.
Ma non pensiamo che quella decina di persone in quel modo si guadagna da
vivere.
Gandhi pensava che il futuro dell’India
indipendente avrebbe dovuto concentrarsi sull’economia del villaggio, basata
sull’agricoltura e l’artigianato, con una piccolissima dipendenza dall’industria
e dalla città. Egli pensava che una società non può essere autosufficiente se i
suoi membri non sono in grado di soddisfare le necessità di base con il proprio
lavoro.
Le idee cardine dell’economia gandhiana sono:
Contare sulle proprie forze, sulle proprie risorse,
creando un’economia sostenibile a livello locale. Tornare alle dimensioni
locali significa produrre quello che serve dove serve, esportando idee non
oggetti. Questo porta ad un enorme risparmio di energia ed a una grande
riduzione degli sprechi: si produce quello che serve, non di più e non si
consuma energia per il trasporto
Ammettendo
per un momento che le macchine potessero soddisfare tutti i bisogni
dell’umanità, esse tuttavia concentrerebbero la produzione in determinate zone,
di modo che si dovrebbero seguire vie indirette per regolare la distribuzione;
se invece la produzione e la distribuzione avvenissero entrambe nelle
rispettive zone in cui le cose sono richieste, la distribuzione sarebbe
automaticamente regolata e si presenterebbero meno occasioni di frode, nessuna
di speculazione.
Lavorare per il pane: nel modello di economia
gandhiana che esorta ad uno stile di vita
semplice, il lavoro dovrebbe essere limitato alla produzione del
necessario e dovrebbe essere inteso come servizio, non come autorealizzazione,
ed il lavoro manuale dovrebbe avere una forte prevalenza rispetto a quello
intellettuale.
Se tutti
lavorassero “per il pane” e niente di più ci sarebbero cibo e agio sufficienti
per tutti. Non ci si lamenterebbe della sovrappopolazione non ci sarebbero la
malattie e questa miseria che vediamo attorno. [……] Gli uomini
farebbero indubbiamente molte altre cose, sia con la mente che con il corpo, ma
tutto questo sarebbe opera di amore per
il bene di tutti. Allora non ci saranno né ricchi né poveri, né superiori né
inferiori, né toccabili né intoccabili.
Non possesso e non attaccamento: sono due regole che Gandhi ha fatto sue e che hanno guidato ogni momento della sua vita
Non-possedere
è legato a non-rubare. Una cosa che originariamente non sia stata rubata, deve
tuttavia considerarsi proprietà rubata se la si possiede senza averne bisogno [……..] Se ciascuno possedesse soltanto quello che
gli occorre, nessuno vivrebbe nel bisogno e tutti sarebbero soddisfatti.
L’amministrazione fiduciaria: nell’economia gandhiana
è previsto un modello di vita comunitario, dove gran parte dei beni e delle
risorse non sono un possesso personale ma sono utilizzate in modo collettivo,
mentre ciascuno possiede solo lo stretto necessario.
In verità
alla radice della dottrina dell’eguale distribuzione deve stare la dottrina
dell’amministrazione fiduciaria dei ricchi per la ricchezza superflua che essi
posseggono. [……] Al ricco sarà lasciato il possesso della sua
ricchezza, di cui userà quanto è ragionevolmente necessario ai suoi bisogni
personali, e farà da fiduciario del resto che verrà usato per la società. In
questo assunto si presuppone l’onestà del fiduciario
La gestione da parte della comunità dei mezzi di
produzione e del prodotto che ne deriva è funzionale ad un’economia povera ed è
presente in molte realtà del sud del mondo.
Uguaglianza e non sfruttamento: sono idee che fanno
parte della civiltà occidentale ma che oggi sono messe in discussione, non solo
nella pratica ma anche concettualmente.
Secondo il neoliberismo le società per produrre ricchezza devono essere
diseguali. Gandhi dice:
L’eguaglianza
economica è la chiave di volta dell’indipendenza nonviolenta. Lavorare per
l’eguaglianza economica vuol dire eliminare l’eterno conflitto tra capitale e
lavoro. Vuol dire da un lato abbassare i pochi ricchi nelle cui mani si
concentra la maggior parte della ricchezza e dall’altro innalzare i milioni di
individui nudi e semiaffamati.
Gandhi ha sperimentato queste idee negli ashram e
nei villaggi con il suo programma costruttivo.
Secondo quanti credono nella nonviolenza ed hanno
a cuore la sopravvivenza del pianeta ed
il raggiungimento della pace questo è il modello che si dovrebbe cercare di
realizzare, prima che sia toppo tardi.
E non è un modello del tutto utopistico: io ne ho
sentito la descrizione ad un convegno sulla finanza etica al quale hanno
partecipato anche personaggi del mondo economico tradizionale, tra questi
l’amministratore di Banca Intesa, che hanno cominciato a capire il significato
della solidarietà ed a finanziare con microcrediti piccole iniziative economiche locali. In molte realtà del sud del mondo
l’economia è basata su questo modello che può essere perfezionato ed adattato
alle diverse realtà.
Esiste in India una rete di villaggi organizzati
secondo le regole dell’economia gandhiana. In questi villaggi ci sono scuole
tecniche con programmi studiati per
preparare i ragazzi ad attività legate al villaggio stesso, ci sono piccole
aziende la cui attività è legata alla produzione locale e così via.
Questi villaggi sono una sorta di laboratorio per
sperimentare una forma di economia locale che potrebbe funzionare come modello
per lo sviluppo di molte regioni del sud del mondo e, in un futuro forse meno
lontano di quanto immaginiamo, per la “decrescita” nei paesi ricchi.
Il
cambiamento di vita che si dovrebbe fare
nei paesi ricchi è enorme e sembra improponibile, me è l’unica via per la
sopravvivenza nostra e del pianeta e in realtà riguarda soltanto una piccola
percentuale degli abitanti della terra.
Se potessimo guardare dall’alto quello che sta
succedendo sulla terra, senza pregiudizi, immaginando di essere un
extraterreste forse riusciremmo a vedere meglio la follia che guida il mondo ed
arriveremmo a comprendere che la strada indicata da Gandhi è l’unica che può
portarci fuori dall’abisso verso in quale
l’umanità si sta dirigendo, fuori dalle guerre, dal degrado dell’ambiente
dall’esaurimento delle risorse del pianeta.
Bibliografia:
Gandhi: Antiche come le montagne - Edizioni di
Comunità 1963 (esiste un’edizione più recente, presso un altro editore)
Gandhi: La forza della non violenza – EMI 2002
Yogesh Chadha: Gandhi Il rivoluzionario disarmato
- Oscar Storia Mondadori
Obiettivo Decrescita a cura di Mario Bonaiuti – EMI 2004