Gandhi fu un personaggio veramente  eccezionale: egli  riuniva in sé l’avvocato professionalmente corretto sempre pronto a difendere i più deboli, il combattente nonviolento per i diritti e la libertà, il politico finissimo, l’accorto diplomatico, lo scrittore e giornalista  e l’asceta profondamente religioso.

Einstein alla morte di Gandhi scrisse:

  

E’ probabile che le generazioni  future faranno fatica a credere  che una persona così abbia mai camminato, in carne e ossa, su questa terra

 

mentre i suoi contemporanei testimoni del suo stile di vita, della sua immensa dedizione agli altri  e del suo profondo spirito religioso gli attribuirono l’appellativo di Mahatma, la Grande Anima. Ma questo appellativo disturbava Gandhi: egli pensava di essere  un uomo pieno di difetti  e non voleva essere venerato ma  seguito nelle sue idee e nelle sue battaglie.

Alcuni lati del suo carattere possono essere discutibili, alcune sue prese di posizione non condivisibili, ma il suo ruolo nella storia dell’India e dell’intera umanità non può essere messo in discussione. Dopo Gandhi l’umanità è più ricca  e, anche se i suoi ideali sono purtroppo ancora un’utopia, mi sento di affermare che soltanto  nella realizzazione di questi ideali c’è la salvezza dell’umanità.

Vorrei introdurre il seminario con un rapido percorso attraverso la vita ed il pensiero di Gandhi, per fermarmi nella seconda parte su quanto rimane oggi dell’eredità di Gandhi, su come il suo pensiero  ancora attuale  può  guidarci nei cambiamenti che prima o poi saremo costretti ad affrontare.

 

Mohandas Karamchand Gandhi - questo è il suo nome completo - nacque il 2 ottobre 1869 a Porbandar, capitale del piccolo regno omonimo, del quale il padre era primo ministro. Gandhi aveva un grande rispetto per il padre e lo ammirava per la sua rettitudine, la sua vasta  esperienza e la sua capacità di guidare le persone. La madre, molto più giovane del padre era una persona profondamente  religiosa e per lei Mohandas provava una profonda venerazione. Così scriverà di lei molti anni più tardi:

 

L’unica impressione che abbia mai destato nella mia mente è quella della santità.

 

Come si usava ai suoi tempi, quando Mohandas non aveva ancora 14 anni furono celebrate le nozze tra lui e la  coetanea Kasturba dalla quale avrà quattro figli e con la quale vivrà per più di sessant’anni. Nel suo diario ci narra la sua esperienza di scolaro e giovanissimo marito, diviso tra i doveri scolastici ed il desiderio di stare con la moglie, per la quale sviluppò ben presto un’intensa passione. Finite le scuole superiori, proseguì gli studi a Londra dove conseguì il titolo di procuratore legale. Gandhi desiderava andare in Inghilterra:    egli voleva vedere nel loro paese quegli uomini bianchi e alti che avevano conquistato l’India, voleva capire  che cosa facesse di questo popolo il dominatore del suo paese.  A Londra fece il suo primo incontro con il cristianesimo, ma contemporaneamente alcuni studiosi inglesi  lo misero di fronte alla ricchezza  della cultura indiana che egli aveva trascurato durante gli studi in India, dove i programmi scolastici imposti degli inglesi privilegiavano lo studio della cultura occidentale.

Tornato in patria ebbe difficoltà ad iniziare la carriera di avvocato e, dopo un periodo di quasi completa inattività, accettò un’offerta di lavoro che lo condusse in Sud Africa. Qui per la prima volta venne direttamente in contatto con il comportamento razzista nei confronti degli indiani diffuso tra i coloni inglesi e conobbe le leggi che mantenevano gli indiani in posizione di inferiorità rispetto ai bianchi. Fu un’esperienza traumatica che cambiò la sua vita, spingendolo verso la politica che scelse come mezzo per difendere i diritti dei più deboli.

Da quel momento il Sud Africa divenne per lui la fucina dove si caratterizzò la sua etica professionale e dove cambiò il suo stile di vita che divenne   via via  più semplice ed austero. Lì nacque il suo bisogno di lavorare per gli altri, in particolare per i più poveri e deboli, lì elaborò e sperimentò il suo metodo di lotta non violenta - la disobbedienza civile e la resistenza passiva - che egli chiamò satyagraha (la forza della verità) e che lo porterà a vincere le numerose battaglie intraprese in Sud Africa e che più tardi utilizzerà in India per ottenere la libertà. Lì dopo  profondi contatti con amici cristiani che cercarono di convertirlo,  rinsaldò la sua fede nell’induismo. Lì fece voto di castità e imparò a vivere  con la moglie come con un’amica arricchendo sempre più la loro comunione spirituale. Lì fondò per la prima volta un ashram - un luogo dove persone unite da ideali condivisi, vivono una vita comunitaria e seguono una particolare disciplina -   e negli ashram visse per lunghi anni con la sua  famiglia e con alcune famiglie amiche. Lì fece esperienza diretta degli orrori della guerra  partecipando con un corpo di infermieri volontari  alla guerra boera ed alla rivolta degli Zulù. Egli si considerava un suddito fedele dell’impero britannico: come tale combatteva per avere gli stessi diritti di tutti i sudditi, ma sentiva di avere gli stessi doveri. In Sud Africa  sperimentò per la prima volta la detenzione nelle carceri inglesi - che chiamava gli alberghi di sua maestà  - dove durante i lunghi anni di lotta  avrebbe passato più di sei anni:  249 giorni in Sud Africa e 2089 in India.

Partendo dall’India pensava di  fermarsi  in Sud Africa per un anno, vi rimase per più di vent’anni con la famiglia che portò con se quando si rese conto che sarebbe rimasto a lungo in quel paese. Quando lasciò il Sud Africa aveva dimostrato  l’efficacia del satyagraha  ed aveva ottenuto per gli indiani almeno una parte dei diritti per i quali si era battuto.

 

Gandhi partì da Durban il 18 luglio 1914 diretto a Londra  dove avrebbe dovuto incontrare Gopal Krishna Gokale, uno dei massimi rappresentanti della politica indiana, che  in quel periodo era in Europa.

Arrivò a Londra il 6 agosto: la prima guerra mondiale della quale egli non aveva avuto alcun sentore era stata dichiarata pochi giorni prima. Anche in questa occasione Gandhi decise di dare il suo sostegno all’Inghilterra, come aveva fatto in Sud Africa, con un corpo di infermieri volontari che reclutò tra i giovani indiani che vivevano a Londra. Come allora si considerava un fedele suddito dell’Inghilterra e riteneva  il suo appoggio un dovere; egli inoltre  pensava ancora che l’“India avrebbe potuto ottenere la completa emancipazione solo entro e attraverso l’impero britannico”.

Tuttavia giustificare questa scelta fu per lui difficile:

 

Tutti noi riconoscevamo l’immoralità della guerra. Se non ero disposto a procedere contro il mio aggressore, tanto meno avrei voluto partecipare ad una guerra, soprattutto non sapendo nulla della giustizia o ingiustizia della causa dei combattimenti. Gli amici naturalmente sapevano che avevo già partecipato alla guerra boera, ma supponevano che le mie opinioni avessero subito un mutamento.

 A dire il vero lo stesso criterio di ragionamento che mi aveva persuaso a partecipare alla guerra boera ebbe il suo peso in questa occasione. Mi era perfettamente chiaro che la partecipazione alla guerra non poteva conciliarsi con l’ahimsa, la nonviolenza. Ma non sempre è dato di vedere con uguale chiarezza i propri doveri. Un seguace della verità è spesso costretto a brancolare nelle tenebre.

 

La sua partecipazione alla guerra fu breve, presto interrotta da una grave forma di pleurite che lo costrinse a letto per un lungo periodo.  Quando  stette meglio i sui amici lo convinsero a lasciare l’Inghilterra dove difficilmente avrebbe potuto superare l’inverno. Il 19 dicembre 1914 si imbarcò con Kasturba sulla nave Arabia diretta a Bombay, dove fu accolto con grande entusiasmo dal mondo politico, rappresentato soprattutto dall’Indian National Congress, il principale partito politico indiano del quale Gandhi divenne ben presto il leader, e da  tutti gli indiani che avevano saputo delle sue battaglie in Sud Africa.

Prima di entrare nel vivo della politica organizzò la sua vita in India: fondò come aveva fatto in Africa un ashram, l’ashram Satyagraha, vicino alla città di Amenabad e poi trasferito sulle rive de fiume Sabarmati. Con questo nome  dice Gandhi “desideravo far conoscere il metodo che avevo sperimentato in Africa e verificare in India fino a che punto ne fosse possibile l’applicazione”. 

Cominciò ad applicarlo poco dopo la fine della guerra quando il governo coloniale trasformò dei provvedimenti temporanei introdotti durante il periodo bellico in una legge permanente: la legge Rowlat. Si trattava di provvedimenti restrittivi di molte libertà civili. Contro questa legge, secondo Gandhi ingiustificata, egli proclamò uno sciopero generale al quale aderì tutta l’India e che si svolse quasi ovunque senza incidenti. In alcune  città tuttavia qualche incidente ci fu e ad  Amristar una città del Punjab gli incidenti - peraltro provocati dagli inglesi con l’arresto immotivato di due membri del Congress – furono seguiti  da una reazione violenta da parte del governo della città, che chiamò in aiuto l’esercito il quale  provocò una strage, e dall’introduzione di provvedimenti umilianti per la popolazione indiana.

I fatti di Amristar determinarono una svolta nel comportamento di Gandhi che da suddito fedele dell’impero diventò il leader della lotta per l’indipendenza dell’India. Egli stesso spiegò la sua svolta durante il processo seguito al suo primo arresto con un famoso discorso di autodifesa. Fu l’unico processo che Gandhi subì: i successivi arresti lo avrebbero portato in prigione senza processo e senza condanna.

Uno degli episodi più spettacolari ed efficaci della lotta nonviolenta condotta da  Gandhi per l’indipendenza dell’India fu la marcia del sale: 380 km a piedi dall’ashram di Sabarmati al mare. La marcia era  un invito  rivolto a tutti gli indiani alla disobbedienza civile contro il pagamento della tassa sul sale. La marcia,  seguita da giornalisti provenienti da tutto il mondo  ebbe un’enorme risonanza e trascinò tutta l’India in una campagna di disobbedienza civile e di non cooperazione, sostenuta dalla solidarietà del mondo intero. Gandhi insieme ai più importanti rappresentanti del Congress e a decine di migliaia di satyagrahi  fu arrestato, ma la fine della sua detenzione fu seguita dai colloqui  Irwin-Gandhi  che per la prima volta videro un inglese,  il rappresentante del re imperatore, discutere alla pari con un rappresentante della politica indiana.

Da questo momento il destino dell’impero britannico fu segnato: la strada per l’Indipendenza dell’India era arrivata al punto senza ritorno. Siamo negli anni 1930-1931: l’indipendenza era ancora lontana, sarebbe costata a Gandhi altri periodi in carcere, diversi digiuni ed alcune battaglie perse, in particolare quella contro la divisione dell’India in uno stato indù e uno mussulmano, ma finalmente il purna swaraj  sarebbe arrivato.

Per Gandhi il raggiungimento dell’indipendenza per la quale si era battuto per lunghi anni,  fu un momento  drammatico e tristissimo: quando nella notte tra il 14 ed il 15 agosto 1947 Nehru proclamò la nascita della repubblica indiana indipendente, Gandhi era a Calcutta e dormiva ed il giorno dopo non  partecipò alle celebrazioni. Vedere l’India divisa e indù e  musulmani ammazzarsi tra loro nelle zone di confine tra India e Pakistan  fu per lui una sconfitta: non era riuscito ad evitare la vivisezione dell’India, e non era riuscito a far capire ai suoi concittadini il valore dalla nonviolenza.

Dopo due drammatici digiuni, prima a Calcutta poi a Delhi. che ebbero il potere di portare la pace tra le comunità religiose, la sera del 30 gennaio 1948 pochi giorni dopo la fine del digiuno di Delhi, Gandhi fu ucciso con tre colpi di pistola mentre stava per iniziare la cerimonia della preghiera serale collettiva. L’assassino di Gandhi era un giovane fanatico indù. La pistola una Beretta.

La  morte del Mahatma fu annunciata al paese da Nehru con un breve discorso alla radio:

 

La luce ha abbandonato le nostre vite ed ovunque regna il buio, e io non so bene che cosa dirvi e in che modo.  La nostra amata guida, Bapu come noi lo chiamavamo, il padre della nostra nazione non è più.  Forse sbaglio a dire questo; comunque sia, non lo vedremo più come lo abbiamo visto per tutti questi anni. Non correremo da lui a chiedere  consiglio e a cercare conforto, e questo è un terribile colpo non solo per me  ma per milioni e milioni di questo paese. Ed è difficile addolcire questo colpo con i consigli che io o altri possiamo tentare di offrirvi.

Ho detto che la luce ci ha abbandonato, ma mi sbagliavo, perché la luce che ha brillato su questo paese non era una luce comune. La luce che ha illuminato per molti anni questo paese continuerà ad  illuminarlo per molti anni, e fra mille anni la si vedrà ancora in questo paese, e il mondo la vedrà, ed essa consolerà innumerevoli cuori. Poiché quella luce rappresentava la verità vivente, e l’uomo eterno era con noi con la sua eterna verità, a ricordarci quale è la retta via, a salvarci dall’errore, a condurre questo antico paese alla libertà.

Tutto questo è successo. Rimane ancora molto da fare. Non potremmo mai pensare che egli non fosse necessario o che avesse esaurito il suo compito. Ma ora, soprattutto, quando i problemi sono così numerosi, che egli non sia qui con noi è una disgrazia assolutamente terribile che dobbiamo sopportare.

 

 

Della luce della quale ha parlato Nehru, di quella luce  che ha brillato sull’India  per molti anni che cosa rimane qui tra noi, nel nostro mondo, nel nostro tempo?

Ad un primo sguardo alle ingiustizie, alle guerre e alle violenze che oggi, dopo quasi sessant’anni dalla morte del Mahatma Gandhi ancora dominano la scena del mondo, potremmo dire che di quella luce non rimane più nulla, che la fiamma che la alimentava si è spenta.  Viviamo in un periodo terribile che, sempre ad un primo sguardo, non dà speranza.  Ma la fiducia nella nonviolenza che  ha guidato la  vita di Gandhi, le sue battaglie e il suo pensiero non dove essere abbandonata: la nonviolenza è più potente e più diffusa di quanto non si veda e non si pensi, siamo noi che spesso non la vediamo.  Ecco che cosa ci dice Gandhi:

 

Il fatto che vi siano ancora tanti uomini vivi nel mondo, dimostra che esso si fonda non sulla forza delle armi ma sulla forza della verità e dell’amore. Perciò la prova maggiore e più inattaccabile dell’efficacia di questa forza si trova nel fatto che nonostante le guerre del mondo esso continua a vivere.

 L’esistenza di migliaia, anzi di decine di migliaia di individui dipende dall’azione molto intensa  di questa forza. Piccoli litigi nella vita quotidiana di milioni di famiglie scompaiono davanti all’esercizio di essa. Centinaia di nazioni vivono in pace. La storia non prende atto, né lo può, di questo fatto. La storia in realtà è la testimonianza di ogni interruzione della costante attività della forza dell’amore o dello spirito. Due fratelli litigano; uno si pente e ravviva l’amore che dormiva in lui; i due ricominciano a vivere in pace; nessuno ne prende atto. Ma se i due fratelli per l’intervento degli avvocati o per qualche altra ragione ricorressero alle armi o alla legge - che è un’altra forma di manifestazione della forza bruta - le loro vicende sarebbero immediatamente riportate dalla stampa, diventerebbero la favola dei vicini e probabilmente passerebbero alla storia. E quello che vale per le famiglie e le comunità vale per le nazioni. Non vi è ragione di credere che vi sia una legge per le famiglie e un’altra per le nazioni. La storia,  allora, è la testimonianza di una interruzione della forza della natura. La forza dello spirito, essendo naturale non è registrata dalla storia.

 

…….Ma forse la storia sta cominciando a registrare qualche piccolo evento sostenuto da  questa forza, forse possiamo affermare che della grande luce che Gandhi ha diffuso sul mondo, alcune  fiammella ardono ancora.  Ma dobbiamo imparare a vederle e a farle  vedere a chi non ha fiducia, e dobbiamo cercare di mantenerle in vita e di ravvivarle con un soffio di energia.

Ecco un esempio: in Palestina, dopo anni di terrorismo e di guerra è nato un movimento di resistenza nonviolenta, di ispirazione gandhiana. Deve vincere l’odio ormai radicato tra israeliani e palestinesi, deve vincere l’abitudine alla violenza ed alla morte, ma può farcela. La violenza non ha portato altro che violenza, non ha fatto altro che esasperare la situazione. Forse sta per arrivare il momento della nonviolenza. Pochi mesi fa si è recato in Palestina per portare il suo appoggio al movimento nonviolento fa un nipote di Gandhi, Arun Gandhi, figlio del secondogenito  Manilal che era rimasto in Sud Africa,  fondatore e animatore del MK Gandhi Institute for Nonviolence, un centro di studi per la nonviolenza e la pace negli Stati Uniti.

 

Ma non è necessario andare lontano. In Italia ci sono stati numerosi seguaci delle idee di Gandhi: vi faccio alcuni i nomi: Lanza del Vasto, Capitini, Lorenzo Dilani,   e da qualche anno sono nati in Italia - a Firenze e a Pisa - dei corsi di laurea dedicati alla scienza della pace ed i libri utilizzati sono i testi classici sulla nonviolenza di diversi autori, tutti ispirati a Gandhi.

In Italia ci sono numerosi movimenti e associazioni che si ispirano a Gandhi. Questi movimenti  lavorano a tanti livelli, si battono per la pace, per il disarmo, contro il commercio delle armi e per la conversione delle fabbriche di armi, per la riconciliazione nei paesi che escono da sanguinosi conflitti, per la protezione dell’ambiente….  

Molto importanti sono i gruppi che lavorano nel campo della didattica per portare nelle scuole, tra i bambini ed i ragazzi la cultura della nonviolenza, l’educazione alla pace. Fanno interventi nelle scuole o organizzano corsi per gli insegnanti.

Partire dai ragazzini è importantissimo: sono loro il futuro. Per i bambini, per i ragazzi scoprire che  è possibile trovare una soluzione pacifica dei conflitti  che ogni giorno nascono tra loro o con gli adulti,  è una scoperta che può cambiare la vita.  Scoprire che non ci deve essere per forza un vinto ed un vincitore, che da un conflitto può nascere non soltanto un accordo ma addirittura un’amicizia,  dà una grande fiducia in se stessi. E più grande diventa il numero di  ragazzi che sono messi in grado di fare questa scoperta,  più grande sarà il cambiamento nella società futura.  L’idea  si allargherà a macchia d’olio, arriverà ad influenzare chi ha il potere, chi governa il mondo.

L’educazione alla nonviolenza non ha bisogno di un corso dedicato: può essere inserita in tantissimi contesti, dall’italiano alle scienze, dalla storia all’ecologia. Può approfittare della composizione delle classi dove i bambini che vengono da paesi lontani e da culture diverse sono sempre più numerosi, può prendere spunto da un fatto del giorno o da un racconto del passato.

 

Ma la violenza ha tante facce, i conflitti e le guerre sono soltanto la manifestazione più visibile della violenza presente nella nostra società.  Una forma di violenza che ha conseguenze drammatiche  è il possesso.  Gandhi viveva in  estrema povertà e sosteneva che ogni oggetto superfluo che ciascuno di noi possiede è un furto perché porta via ad un altro la possibilità di avere qualche cosa di necessario alla sua sopravvivenza. Queste sono parole sue:

 

La madre terra ha risorse sufficienti per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di qualcuno

 

Ed è proprio per soddisfare la sua avidità che il mondo occidentale vive a spese del sud del mondo, si appropria  delle risorse che dovrebbero essere disponibili per tutti e cerca di assicurarsi il controllo di queste risorse per il futuro, con tutti i mezzi, senza pensare che le risorse non sono infinite.

Possiamo fare qualche cosa per cambiare direzione, possiamo trovare una guida per il nostro futuro nella vita di Gandhi e nelle sue parole? 

 

Una delle battaglie più importanti  condotte da Gandhi per il futuro autogoverno dell’India, è quella per il riscatto dei villaggi. Prima di entrare in politica egli ha viaggiato a lungo per l’India, per rendersi conto delle condizioni nelle quali la maggior parte degli indiani viveva. Durante questi viaggi è venuto direttamente in contatto con il terribile stato di povertà nel quale vivevano gli abitanti dei 700.000 villaggi indiani e si è reso conto che la causa di questa povertà era da ricercarsi nella dominazione inglese.  I villaggi erano lontani dalle città, i rappresentanti dei governi arrivavano soltanto al momento della riscossione delle tasse ed i villaggi erano amministrati dal consiglio degli anziani, le controversie erano risolte da una sorta di tribunale popolare.  Da secoli durante i mesi di inattività tipici del lavoro agricolo i contadini si dedicavano  a diversi lavori artigianali tra i quali i più diffusi erano la filatura e la tessitura a mano del cotone ed il  il khādī - il tessuto prodotto con questo lavoro – veniva venduto sui mercati dell’India e anche fuori dall’India. Ma  il khādī non aveva retto alla concorrenza dei tessuti prodotti nelle industrie inglesi che avevano invaso i mercati indiani e i contadini avevano perso una fonte di guadagno sicura riducendosi in molte regioni dell’India ad uno stato di povertà e di prostrazione che sconvolgeva Gandhi:

 

Quanto più penetro nei villaggi, tanto maggiore è l’impressione penosa che provo incontrando gli occhi vacui dei nostri contadini. Non avendo altro da fare che soffrire e lavorare come schiavi accanto ai loro buoi, essi sono diventati quasi come loro.

 

E l’immagine degli “scheletri dietro ai buoi” che incontrava nelle campagna non lo abbandonava e lo ha portato a promuovere il ritorno del lavoro artigianale nei villaggi,  in particolare la filatura e tessitura, con il famoso movimento del charka, e a concepire un programma per promuovere il riscatto dei villaggi, il “Programma Costruttivo”.

 Muovendosi a piedi da villaggio a villaggio Gandhi illustrava ai contadini questo programma  la cui realizzazione avrebbe consentito ai villaggi stessi di riscattarsi dalla povertà e dal degrado e di ritrovare l’autonomia economica ed amministrativa della quale un tempo godevano.

 

Il modello economico di Gandhi nato per il villaggio indiano, è studiato oggi da diversi economisti come un’alternativa  al mercato globale. 

Le teorie economiche sulle quali si basa il mercato globale  non tengono conto del fatto  che le risorse disponibili si stanno esaurendo, che il miglioramento delle tecnologie  potrà portare ad un risparmio temporaneo di queste risorse, ma non potrà permettere il loro utilizzo all’infinito e non potrà impedire il progressivo  degrado dell’ambiente, anzi l’introduzione di nuova fonti di energia non farebbe che accelerarlo.

L’idea di sviluppo sostenibile nella quale per anni abbiamo creduto non è realistica: le parole stesse sviluppo e sostenibile sono in contraddizione, ed alcuni economisti oggi  non ne parlano più ma parlano  di “decrescita sostenibile” che significa abbassare il tenore di vita dei paesi ricchi (il nostro tenore di vita) e alzare quello dei paesi poveri  e questi economisti guardano a Gandhi.

Il fine del modello economico fondato sulla  decrescita, è il benessere di tutti, contrapposto a quello di pochi che - come dice Gandhi - “rubano” agli altri. Questo tipo di economia è il presupposto per superare l’enorme ingiustizia che caratterizza il mondo globale e divide l’umanità in due parti:  chi ha e chi non ha e per realizzare una società nonviolenta, nella quale il motore non sia il danaro ma la solidarietà.

Le idee per realizzarlo sono le idee che Gandhi ha applicato alla sua vita, alla vita degli ashram e che ha cercato di  realizzare nei villaggi dell’India.

 

Gandhi  non credeva nella civiltà industriale e trovava utili solo quelle macchine che possono rendere più facile il lavoro di tutti i giorni nelle case e nei villaggi, non quelle che portano ad un aumento continuo della produzione di oggetti, sfruttando il lavoro di pochi e  togliendo il lavoro a migliaia di persone.

 

Mi oppongo alla “follia” della macchina, non alla macchina come tale. La follia riguarda le cosiddette macchine risparmiatrici di lavoro. Gli uomini continuano a “risparmiare lavoro”  fino a che migliaia di individui rimangono senza lavoro e sono gettati sulle pubbliche strade a morire di fame. Voglio  economizzare tempo e lavoro non per una frazione dell’umanità, ma per tutti;  voglio l’accentramento dei beni non nelle mani di pochi, ma nelle mani di tutti. La macchina oggi serve solo a far salire i pochi sulla schiena delle moltitudini. L’impulso che sta dietro tutto questo non è risparmiare lavoro per amore degli uomini, ma avidità. [….]

Le macchine hanno il  loro posto, si sono affermate. Ma non bisogna permettere che sostituiscano il necessario lavoro umano. Un aratro perfezionato è una bella cosa.  Ma se, per un caso, un tale da solo grazie ad una sua invenzione meccanica riuscisse ad arare tutto il terreno dell’India e controllasse tutta la produzione agricola e se gli altri milioni di individui non avessero altra occupazione essi sarebbero in pericolo di fame e nell’ozio, diventerebbero dei somari , come molti sono già diventati.

 

Questa idea della macchina che risparmia ore di lavoro è entrata nel nostro modo di pensare come un’idea giusta. Ci sembra assurdo vedere una decina di persone che in una giornata fanno un lavoro che una macchina potrebbe fare in un’ora, azionata da una o due persone al massimo. Ma non pensiamo che quella decina di persone in quel modo si guadagna da vivere.

Gandhi pensava che il futuro dell’India indipendente avrebbe dovuto concentrarsi sull’economia del villaggio, basata sull’agricoltura e l’artigianato, con una piccolissima dipendenza dall’industria e dalla città. Egli pensava che una società non può essere autosufficiente se i suoi membri non sono in grado di soddisfare le necessità di base con il proprio lavoro.

 

Le idee cardine dell’economia gandhiana sono:

 

Contare sulle proprie forze, sulle proprie risorse, creando un’economia sostenibile a livello locale. Tornare alle dimensioni locali significa produrre quello che serve dove serve, esportando idee non oggetti. Questo porta ad un enorme risparmio di energia ed a una grande riduzione degli sprechi: si produce quello che serve, non di più e non si consuma energia per il trasporto

 

Ammettendo per un momento che le macchine potessero soddisfare tutti i bisogni dell’umanità, esse tuttavia concentrerebbero la produzione in determinate zone, di modo che si dovrebbero seguire vie indirette per regolare la distribuzione; se invece la produzione e la distribuzione avvenissero entrambe nelle rispettive zone in cui le cose sono richieste, la distribuzione sarebbe automaticamente regolata e si presenterebbero meno occasioni di frode, nessuna di  speculazione.

 

Lavorare per il pane: nel modello di economia gandhiana che esorta ad uno stile di vita  semplice, il lavoro dovrebbe essere limitato alla produzione del necessario e dovrebbe essere inteso come servizio, non come autorealizzazione, ed il lavoro manuale dovrebbe avere una forte prevalenza rispetto a quello intellettuale.

 

Se tutti lavorassero “per il pane” e niente di più ci sarebbero cibo e agio sufficienti per tutti. Non ci si lamenterebbe della sovrappopolazione non ci sarebbero la malattie e questa miseria che vediamo attorno. [……] Gli uomini farebbero indubbiamente molte altre cose, sia con la mente che con il corpo, ma tutto questo sarebbe  opera di amore per il bene di tutti. Allora non ci saranno né ricchi né poveri, né superiori né inferiori, né toccabili né intoccabili.

 

Non possesso e non attaccamento: sono due regole  che Gandhi ha fatto sue e che  hanno guidato ogni momento della sua vita

 

Non-possedere è legato a non-rubare. Una cosa che originariamente non sia stata rubata, deve tuttavia considerarsi proprietà rubata se la si possiede senza averne bisogno [……..]  Se ciascuno possedesse soltanto quello che gli occorre, nessuno vivrebbe nel bisogno e tutti sarebbero soddisfatti.

 

L’amministrazione fiduciaria: nell’economia gandhiana è previsto un modello di vita comunitario, dove gran parte dei beni e delle risorse non sono un possesso personale ma sono utilizzate in modo collettivo, mentre ciascuno possiede solo lo stretto necessario.

 

In verità alla radice della dottrina dell’eguale distribuzione deve stare la dottrina dell’amministrazione fiduciaria dei ricchi per la ricchezza superflua che essi posseggono.  [……]  Al ricco sarà lasciato il possesso della sua ricchezza, di cui userà quanto è ragionevolmente necessario ai suoi bisogni personali, e farà da fiduciario del resto che verrà usato per la società. In questo assunto si presuppone l’onestà del fiduciario

 

La gestione da parte della comunità dei mezzi di produzione e del prodotto che ne deriva è funzionale ad un’economia povera ed è presente in molte realtà del sud del mondo.

 

Uguaglianza e non sfruttamento: sono idee che fanno parte della civiltà occidentale ma che oggi sono messe in discussione, non solo nella pratica ma anche concettualmente.  Secondo il neoliberismo le società per produrre ricchezza devono essere diseguali. Gandhi dice:

 

L’eguaglianza economica è la chiave di volta dell’indipendenza nonviolenta. Lavorare per l’eguaglianza economica vuol dire eliminare l’eterno conflitto tra capitale e lavoro. Vuol dire da un lato abbassare i pochi ricchi nelle cui mani si concentra la maggior parte della ricchezza e dall’altro innalzare i milioni di individui nudi e semiaffamati.

 

Gandhi ha sperimentato queste idee negli ashram e nei villaggi con il suo programma costruttivo.

Secondo quanti credono nella nonviolenza ed hanno a cuore la sopravvivenza del pianeta  ed il raggiungimento della pace questo è il modello che si dovrebbe cercare di realizzare, prima che sia toppo tardi.

E non è un modello del tutto utopistico: io ne ho sentito la descrizione ad un convegno sulla finanza etica al quale hanno partecipato anche personaggi del mondo economico tradizionale, tra questi l’amministratore di Banca Intesa, che hanno cominciato a capire il significato della solidarietà ed a finanziare con microcrediti  piccole iniziative economiche  locali. In molte realtà del sud del mondo l’economia è basata su questo modello che può essere perfezionato ed adattato alle diverse realtà.

Esiste in India una rete di villaggi organizzati secondo le regole dell’economia gandhiana. In questi villaggi ci sono scuole tecniche con programmi studiati  per preparare i ragazzi ad attività legate al villaggio stesso, ci sono piccole aziende la cui attività è legata alla produzione locale e così via.

Questi villaggi sono una sorta di laboratorio per sperimentare una forma di economia locale che potrebbe funzionare come modello per lo sviluppo di molte regioni del sud del mondo e, in un futuro forse meno lontano di quanto immaginiamo, per la “decrescita” nei paesi ricchi.  

 Il cambiamento di vita che  si dovrebbe fare nei paesi ricchi è enorme e sembra improponibile, me è l’unica via per la sopravvivenza nostra e del pianeta e in realtà riguarda soltanto una piccola percentuale degli abitanti della terra.

Se potessimo guardare dall’alto quello che sta succedendo sulla terra, senza pregiudizi, immaginando di essere un extraterreste forse riusciremmo a vedere meglio la follia che guida il mondo ed arriveremmo a comprendere che la strada indicata da Gandhi è l’unica che può portarci fuori dall’abisso verso in quale  l’umanità si sta dirigendo, fuori dalle guerre, dal degrado dell’ambiente dall’esaurimento delle risorse del pianeta.

 

 

 

Bibliografia:

 

Gandhi: Antiche come le montagne - Edizioni di Comunità 1963 (esiste un’edizione più recente, presso un altro editore)

Gandhi: La forza della non violenza – EMI 2002

                

Yogesh Chadha: Gandhi Il rivoluzionario disarmato - Oscar Storia Mondadori

 

Obiettivo Decrescita  a cura di Mario Bonaiuti – EMI 2004