Per avviare gli allievi verso un modo di guardare al
fenomeno della formazione delle ombre più “scientifico”, ho
proposto loro l’esecuzione di altre esperienze “libere”.
Ho invitato gli allievi ad osservare nuovamente le ombre
all’esterno della scuola in una giornata col cielo parzialmente
coperto, ad un’ora diversa da quella della prima esperienza, ed ho
chiesto loro di osservare le differenze fra le condizioni generali in
cui avrebbero lavorato e le condizioni in cui avevamo lavorato nella
precedente esperienza. Appena usciti dalla scuola, i bambini si sono
resi conto dell’impossibilità di vedere le ombre nello stesso luogo
della volta precedente e alcuni di loro hanno fatto notare che ciò
dipendeva dalla diversa posizione del Sole a quell’ora del giorno (“Prima
c’erano, adesso no perché il Sole si è spostato”, “L’altra
volta era verso le ore 11”). Le caratteristiche
delle ombre osservate (“Le
ombre ci sono un pochino...”, “Si, sono più chiare”)
vengono presto messe in relazione con il tipo di illuminazione
dell’ambiente. Le ombre mal definite non sembrano però destare
ulteriore interesse negli allievi, chiedo quindi loro di proporre
esperienze più adatte ai nostri obiettivi di studio. I bambini
propongono di rientrare in classe e di studiare le ombre prodotte da
una lampadina.
Si effettuano varie esperienze utilizzando una lampadina che
può essere spostata a piacere per formare le ombre. Inizialmente sono
accese anche le luci normali dell’aula e le ombre vengono proiettate
sulla superficie della porta; gli allievi decidono poi di tenere
accesa solo la lampadina e di oscurare le finestre
supponendo che le ombre si vedano meglio. I bambini giocano a
far cambiare le dimensioni delle loro ombre avvicinandosi ed
allontanandosi dalla lampadina che viene tenuta ferma, si entusiasmano
accorgendosi che l’ombra di un’intera persona può
“scomparire” nell’ombra della testa di un bambino molto vicino
alla lampadina, osservano come variano le posizioni delle ombre
muovendo la lampadina da una parte e dall’altra, verso l’alto e
verso il basso. Permangono osservazioni di tipo “animistico” (“Sembra
che ci oltrepassiamo”), ma vengono accompagnate da osservazioni
in cui gli allievi mettono in relazione la grandezza delle ombre con la distanza dell’oggetto dalla sorgente (“Vicino alla luce diventiamo più grandi”, “AT è più vicino alla
luce, I è più lontana e si vede più piccola”,...) e la
posizione delle ombre con la posizione della sorgente ([l’ombra] “Va
fino al soffitto!”, “Si abbassa!”). Le spiegazioni diventano
più articolate: un’allieva utilizza contemporaneamente l’idea che
la luce non può
oltrepassare le persone e le osservazioni su distanza dalla sorgente e
grandezza dell’ombra per descrivere una situazione complessa (un suo
compagno, vicino alla lampadina, proietta la sua ombra su parte della
porta; lei si trova nello spazio d’ombra del compagno). Alla mia
domanda (“Dov’è la tua
ombra?”), risponde (“Non
c’è tranne qui [alza il braccio fuori dallo spazio d’ombra] perché
la luce non riesce ad illuminare più avanti di MAN e io sono più
lontana dalla luce”).
A questo punto, per poter vedere le ombre più
distintamente, i bambini propongono di andare a lavorare nella
palestra, che può essere oscurata totalmente, portando la lampadina
con loro (“In palestra, al
buio, perché non proviamo?”, “Buio completo e solo lampadina!”).
Le esperienze in palestra mettono in evidenza una
spersonalizzazione delle osservazioni: gli allievi passano dalla
considerazione delle proprie ombre all’osservazione delle ombre
provocate da vari oggetti. Sentono l’esigenza di riconfermare le
scoperte già fatte (“Avvicinando gli oggetti alla lampadina le ombre si ingrandiscono”,
”Se metto la chiave davanti al cubo, sembra che entra”,...) e
osservano in modo più accurato le relazioni fra
forma delle ombre e orientamento spaziale degli oggetti ruotando questi ultimi in vari modi. Sono particolarmente
colpiti dal limite della “trasformazione degenere” (“Il
birillo se lo giro così diventa un tondo”).
Al termine di questa prima fase del percorso, basata su
osservazioni totalmente libere, ho ritenuto opportuno sollecitare gli
allievi a riflettere individualmente sulle osservazioni compiute ed ho
proposto loro di rispondere, sotto forma scritta, alla domanda:
“Cosa ho osservato nelle esperienze di luce ed ombre?”. La domanda
aveva un duplice scopo: guidare i bambini ad un lavoro più
consapevolmente orientato a risolvere problemi specifici e fornire a
me elementi più precisi, su ognuno di loro, per poter individuare
riferimenti importanti ed essenziali sulla base dei quali impostare le
attività successive.
In effetti dall’analisi delle risposte emerge che tutti
gli allievi condividono le diverse osservazioni svolte: la necessità
di avere una sorgente di luce affinché l’ombra possa formarsi; il
fatto che l’ombra può essere vista su diverse superfici; il fatto
che la grandezza e la forma delle ombre dipendono dalle posizioni
della sorgente, dell’oggetto e della superficie su cui si forma
l’ombra.
Per descrivere la geometria delle situazioni cui si
riferiscono, i bambini utilizzano esempi perlopiù riferiti alla
propria persona (“Io mi
ricordo che quando ero di fronte al Sole dietro di me venivano le
ombre”, “Io ho capito che se c’è una cosa di fronte al Sole,
viene l’ombra”, “Se sono di fianco al Sole l’ombra viene in
obliquo di fianco a me. Se mi metto di fronte al Sole l’ombra viene
dietro di me. Se mi metto di spalle al Sole l’ombra viene davanti a
me”).
Molti fanno anche riferimento alla sovrapposizione delle
ombre, senza peraltro dare una spiegazione del fenomeno (“E quando mi mettevo sopra un’altra ombra, la mia non c’era”).
Ho ritenuto opportuno avviare una discussione con i bambini
a partire dalla lettura di alcune parti dei loro elaborati, sia per
richiamare le conoscenze da loro acquisite fino a quel momento,
sottolineandone il carattere di generalità, sia per riflettere sul
linguaggio utilizzato per descriverle, nell’intento di avviarli ad
acquisire la consapevolezza dell’utilità/necessità di costruire un
linguaggio condiviso e non ambiguo.
Nella prima parte della discussione i bambini,
guidati da opportune domande, riuniscono in un’unica
categoria tutte le superfici sulle
quali hanno visto formarsi le ombre, giungendo ad identificare con la
parola “schermo” il terzo elemento necessario, oltre la sorgente
luminosa e l’oggetto, per la formazione di un’ombra. Questa parte
di discussione risulta molto lunga e difficoltosa proprio a causa di
malintesi dovuti ai diversi significati attribuiti inizialmente alla
parola “schermo” da parte di bambini diversi e da parte mia.
La discussione prosegue
con il confronto fra gli “schermi” conosciuti (pareti, pavimento,
soffitto, cartoncini di vario colore, schermo per diapositive,
lavagna) per individuare le caratteristiche che consentono di “far
vedere” le ombre e i bambini arrivano a concludere che gli schermi
possono essere di tutti i tipi (qualunque superficie) purché non
siano di colore nero (“Vanno
bene tutti i colori tranne il nero”).
Prima che io possa proporre alla discussione altri elementi
emersi dagli elaborati, un allievo riferisce un’esperienza compiuta
a casa propria: ricalcare col gesso il contorno della propria ombra
stando accucciato sul pavimento, per vedere come essa cambiava in
relazione ai suoi movimenti. I compagni vorrebbero rifare
l’esperienza, ma vengono distolti da questo proposito dall’ascolto
di un’altra osservazione riferita da una bambina che dice di aver
notato, su una parete di casa, tre ombre distinte della propria mano.
Quest’ultima osservazione provoca negli allievi molta curiosità e
il desiderio di scoprire esattamente cosa ha visto la compagna e come
si può spiegare il fenomeno. La bambina viene invitata a descrivere,
con precisione ed in modo comprensibile a tutti, quello che ha visto.
Partendo dall’affermazione dell’alunna che la luce alla quale
erano dovute le tre ombre proveniva da un lampadario, invito gli
allievi ad osservare la differenza tra le ombre prodotte dalle 18
lampade al neon della palestra e quelle prodotte utilizzando come
unica sorgente un proiettore per diapositive presente nell’ambiente.
Gli allievi non hanno difficoltà ad osservare che il proiettore
produce una singola ombra mentre le tante lampade producono “ombre
multiple”, così tante da sovrapporsi in modo da rendere confusi i
contorni dell’ombra che ne risulta. Mentre si discute sul confronto
fra i due tipi di ombra, emerge la necessità di chiamare in modo
diverso i due tipi di illuminazione (“Il proiettore è una luce unica perché va solo in un punto”, “La
luce della palestra fa luce dappertutto”,...) e si decide di
chiamare “luce direzionale” quella del proiettore e “luce
diffusa” quella dei neon (“Con
la diffusa si vedono tante ombre una sopra all’altra, con la
direzionale solo una”). La regola appena formulata viene
utilizzata dagli allievi per riflettere sull’esperienza della
compagna e i bambini concludono che per produrre tre ombre, il
lampadario doveva avere tre lampadine. L’interessata conferma che,
in effetti, il lampadario aveva quattro lampadine ma una era spenta.
Prima di riprendere a fare esperienze, ridiscuto con i
bambini sulle condizioni ottimali per vedere al meglio le ombre e
concludiamo che le condizioni ottimali per compiere osservazioni sulle
ombre si hanno lavorando in un ambiente oscurato e utilizzando come
sorgente di luce il proiettore e come schermo un cartellone bianco.
Gli allievi sono allora sollecitati a compiere osservazioni
sulle ombre proiettate da sagome quadrate nelle condizioni ottimali
precedentemente identificate. Con questa attività intendo rafforzare
le “scoperte” precedenti e offrire ai bambini l’occasione di
farne altre, in una situazione contemporaneamente più complessa di
quella corrispondente allo studio delle ombre degli oggetti usati in
precedenza (un tamburello, un birillo) e più schematica di quella
corrispondente alle proprie ombre.
Osservando i cambiamenti dell’ombra del quadrato a seconda
della sua distanza dalla sorgente di luce e del suo orientamento nello
spazio, gli allievi giungono a rendersi conto delle relazioni fra la
forma dell’ombra ed il modo con cui la superficie viene colpita dal
fascio luminoso, riconoscendo operativamente le condizioni in cui
l’ombra è quadrata e cercando di esplicitarle (“La
luce lo colpisce di fronte, cioè la luce va direttamente di fronte
all’oggetto...”).
Sono inoltre particolarmente colpiti dalle condizioni in cui si ha
l’ombra “degenere” (“Di fronte alla luce adesso c’è il profilo dell’oggetto”, “In
tutti i modi tranne quando è di profilo”).
Vengono anche rifatte esperienze di sovrapposizione delle
ombre, che tanto affascinano gli allievi, utilizzando due quadrati
della stessa dimensione che vengono tenuti a diverse distanze tra loro
e dalla sorgente.
I commenti dei bambini, seppure espressi in un linguaggio
molto approssimativo, che solo la gestualità di chi parla e la
possibilità di un’osservazione contestuale del fenomeno da parte di
chi ascolta rendono non ambiguo, mostrano un impegno particolare a
trovare spiegazioni più generalizzate di quanto non avveniva in
precedenza (“L’ombra piccola l’ho messa davanti a quella vicino alla luce e
l’ombra grande copre quella piccola e quindi tutta l’ombra non
viene perché c’è un’ombra piccola sopra un’altra ombra
grande...”, “L’ombra piccola non ce la fa perché è troppo
piccola,...,perché quella grande è vicina”, “Il quadrato che sta
vicino alla luce fa ombra a quello lontano”, “No, non c’è perché
è all’ombra dell’altro”).
Quest’atteggiamento di maggior maturità della classe nel
suo complesso mi ha spinto ad avviare una discussione su “cos’è”
l’ombra.
Posti di fronte a una domanda così astratta, molti bambini
inizialmente rispondono considerando l’ombra come “entità”
dotata di esistenza autonoma, o perché cade sotto la nostra
percezione (“Se non esistesse noi non la vedremmo, sarebbe un’immaginazione”),
o perché la ritengono legata alla loro stessa esistenza (“Esiste, perché se no noi non esisteremmo, è una cosa nostra. Se vai
all’ombra dell’albero non la vedi perché quella dell’albero
copre la nostra”). L’intervento di un bambino (M) che
considera la domanda da un punto di vista che possiamo ben chiamare di
tipo più scientifico (“Per me l’ombra è solo il buio che prende la forma di
quell’oggetto che stai illuminando”), suscita immediatamente
l’approvazione dei compagni e li riconduce ad un modo di vedere
coerente con tutte le osservazioni fatte in precedenza. Seguono nuove
osservazioni che vanno tutte nella direzione di una
descrizione/spiegazione del fenomeno oggetto di studio. Non viene
raggiunta, in realtà, (Blocco 4) una conclusione esplicitamente
condivisa anche se a me sembra di poter affermare che i bambini siano
arrivati ad individuare l’ombra come “assenza di luce” (“Se
mettiamo una lampadina davanti alla mano, questa copre la luce della
lampadina. L’altra parte resta illuminata,...,quella parte che la
mano ha coperto prende la forma della mano,...”, “Vedi, perché
quando allarghi le dita, in mezzo alle dita c’è lo spazio di luce,
invece dove copri, la luce non c’è”).
Questa parte di discussione è stata caratterizzata da un
apparente “passo indietro” in quanto bambini che sembravano aver
superato una visione “personificata” dell’ombra, sollecitati da
una domanda “astratta” che richiede una conoscenza abbastanza
approfondita del processo di formazione delle ombre, per rispondere
hanno momentaneamente abbandonato il modo di guardare ai fenomeni in
modo oggettivo ricadendo in osservazioni molto simili per tipologia a
quelle iniziali (primi due incontri). L’intervento del bambino M ha
comunque fornito l’occasione per rilanciare il discorso in una
prospettiva vicina a quella disciplinare.