A questo punto del percorso ho ritenuto che i bambini
fossero arrivati ad una maturità sufficiente per avviarli ad una
costruzione del modello “a raggi” che fosse per loro
significativa. In effetti avevano ormai notato tutta una serie di
caratteristiche del comportamento delle figure d’ombra e dello
spazio d’ombra che avrebbero potuto essere interpretate attraverso
il modello a raggi; erano in grado di interagire costruttivamente
confrontando le proprie idee fra di loro e con le osservazioni
sperimentali avevano inoltre appreso come operare con una certa
sistematicità. La nuova fase di lavoro è stata avviata proponendo
una situazione adatta a sintetizzare gli aspetti da interpretare e a
prendere familiarità con l’apparato sperimentale che prevedevo di
utilizzare.
Ho presentato ai bambini la sagoma di una casetta ritagliata
da un cartoncino (che aveva la caratteristica di consentire un
immediato riconoscimento dei lati corrispondenti della sagoma stessa e
della sua ombra), una lampadina, dei sostegni che potevano sorreggere
l’una e l’altra e una parete della stanza ricoperta da una serie
di fogli di carta bianchi. Ho chiesto cosa si sarebbe dovuto fare per
riprendere lo studio delle ombre. I bambini hanno fatto proposte ed
eseguito una serie di prove con molto impegno e notevole sistematicità.
Dapprima la lampadina e la sagoma della casetta vengono
fissate sui sostegni e disposte in modo che la casetta si trovi tra la
lampadina e la parete. La lampadina viene centrata sul lato di base
della casetta, che è disposta parallelamente alla parete. Viene
accesa la lampadina. Io ricordo ai bambini che per confrontare diverse
ombre è necessario avere sempre lo stesso riferimento e i bambini
disegnano per terra i contorni dei sostegni che sorreggono la casetta
e sulla parete i contorni dell’ombra. La prima esperienza che i
bambini fanno consiste nel ruotare la casetta rispetto allo schermo e
nel rendersi conto che la distorsione della figura è dovuta al fatto
che i lati verticali a distanze diverse dalla lampadina si
ingrandiscono in modo diverso (“Viene
un po’ grande e un po’ basso perché un sostegno è più lontano
dalla luce e più avanti dell’altro sostegno e l’altro è più
vicino alla luce”). Successivamente i bambini muovono la casetta
facendola restare parallela allo schermo in modo da avere
ingrandimento dell’ombra senza distorsione.
Chiedo se è possibile modificare l’ombra senza spostare
la casetta, e viene eseguito un secondo gruppo di prove nelle quali i
bambini fissano tante posizioni successive per la lampadina
avvicinandola progressivamente alla casetta, a partire da una
posizione iniziale molto lontana (circa otto metri). Ogni volta che
spostano la lampadina mantengono costante l’entità dello
spostamento e hanno cura di segnare e numerare progressivamente sul
pavimento i contorni dei sostegni della lampadina (“Se
vogliamo far capire bene dal più grande al più piccolo [riferendosi
alla grandezza dell’ombra], dovremo numerare le posizioni
[riferendosi alla lampadina]”, “Dovremmo mettere il piede [il
sostegno] lì e lì e lì ecc. e poi dove si vede più piccolo mettere
1, dove si vede più grande il numero che si vuole e in mezzo due,
tre,...”). Su mio suggerimento vengono numerati anche i contorni
delle ombre. Arrivati a posizionare la lampadina il più vicino possibile alla
casetta, gli allievi provano a spostarla lateralmente, prima in un
verso e poi nell’altro.
Nella discussione che accompagna le esperienze i bambini
sottolineano esplicitamente il fatto che l’ingrandimento delle ombre
può essere ottenuto indifferentemente spostando l’oggetto o
spostando la lampadina. Tutti sanno prevedere correttamente dove si
formerà l’ombra in corrispondenza di ogni posizione della lampadina
anche se riesce loro molto difficile tradurre l’insieme delle
singole intuizioni in una regola generale, nonostante una mia
sollecitazione in questa direzione. Alla domanda “Cosa possiamo vedere, allora?... Che se spostiamo la luce da una
parte…” rispondono solo due bambini, uno che ritorna al caso
particolare (“Se spostiamo la
luce da una parte, a sinistra, l’ombra va a destra e se è a destra
l’ombra va a sinistra”), l’altra che forse vuole enunciare
una regola generale, mettendo in evidenza che le appare
controintuitiva, ma ha notevoli difficoltà di espressione (“E’
il contrario di quello che dovrebbe essere”).
A questo punto decido di passare alla costruzione del
modello a raggi. Chiedo ai bambini di riconoscere punti corrispondenti
dell’ombra e della casetta e successivamente domando come si
potrebbero collegare l’uno all’altro i punti fra loro
corrispondenti. Gli allievi suggeriscono subito di utilizzare dei
fili, si sorprendono molto quando io mostro loro un rocchetto di filo
tagliandone dei pezzi ed invitandoli ad usarli, e si adoperano con
entusiasmo e grande cura per fare i collegamenti.
Una volta che tutti gli spigoli della figura d’ombra sono
stati collegati a dei fili, chiedo dove arriverebbero i fili stessi
“tirandoli dritti” oltre la casetta (avevo tagliato dei fili
sufficientemente lunghi perché potessero arrivare dall’ombra fino
alla lampadina). I bambini si accorgono immediatamente che i fili
arriverebbero alla lampadina e decidono di praticare dei piccoli fori
in corrispondenza degli spigoli della casetta per poter effettuare il
collegamento senza alterare la direzione dei fili. Una volta collegati
i fili ad un archetto di fil di ferro da me appositamente fissato
davanti alla lampadina, la prima cosa che i bambini notano è che i
fili “formano dei triangoli”.
Distribuisco agli allievi dei bastoncini di legno e li
invito ad usarli per esplorare lo spazio delimitato dai fili, sia fra
lampadina e casetta, sia fra casetta e parete. I bambini riescono in
questo modo sia a riconoscere lo spazio d’ombra fra oggetto e
schermo, sia ad identificare il fascio di luce che colpisce la casetta.
Chiedo
ai bambini di prevedere come saranno i fili se si allontana la
lampadina dalla casetta. “Più
lunghi…l’ombra si rimpicciolisce e i fili diventano sempre più
stretti”, “Nooo,…si, si” rispondono i bambini, e io li
invito a provare. La lampadina viene spostata, lasciando però
dov’era il ferretto con i fili attaccati, e vengono sistemati i
nuovi fili. Le osservazioni confermano le previsioni
(“La prima lampadina,
quella più vicina ha l’ombra numero sei, quella più lontana ha
l’ombra numero zero [guardando i contorni delle ombre disegnati
sulla parete e numerati], quindi [i fili] cambiano direzione: il
triangolo prima è più preciso, dopo è meno preciso”, “Il
triangolo è più stretto e più lungo”). Una bambina precisa
che la figura formata dai fili è un triangolo solo fra lampadina e
casetta, mentre fra casetta e parete i fili formano un’altra figura
(“Non è un triangolo…, cioè se partivo da qua [lampadina] era un
triangolo, invece se parte da qua [parete]…”).
Io
chiedo se la luce può essere vista come tanti fili che partono dalla
lampadina e una bambina risponde che “Praticamente
quello [riferendosi all’insieme dei fili] è come la luce, perché
va a raggi la luce, no?”. Siamo ormai alla fine di una lezione e
nel poco tempo che resta si torna a discutere sui fili e si
evidenziano essenzialmente problemi di linguaggio, dovuti al diverso
significato che il termine
“dritto”
ha per bambini diversi (“[I
fili] vanno storti...vanno più dritti”, “Se vanno dritti non si
possono restringere!”, “Anche se vanno dritti si possono
restringere!”).
Termino la lezione assegnando un compito scritto di
riepilogo sul lavoro fatto fino a quel momento (“Cosa abbiamo fatto?
Cosa abbiamo imparato?”).
Dedico la lezione successiva alla discussione dei compiti,
con l’intento di consolidare le conoscenze raggiunte, chiarire dubbi
e costruire un linguaggio condiviso e non ambiguo. Nella discussione,
nel corso della quale i bambini ricorrono a disegni alla lavagna
finalmente comprensibili (non c’è il problema della sorgente
all’infinito!), ci si mette d’accordo sui termini da usare per
descrivere gli aspetti geometrici delle situazioni considerate e si
sottolineano alcuni punti fondamentali. La luce va sempre dritta e i
fili fanno vedere come va. Dritto vuol dire che mantiene sempre la sua
direzione (“[Dritti] vuol dire
linee o luce che vanno sempre nella stessa direzione e non curvano
mai...il filo infatti faceva vedere come secondo noi era la luce, la
direzione in cui andava la luce”). Allontanando la lampadina
dall’oggetto, i raggi tendono sempre più a diventare paralleli (“Questi
fili [della lampadina vicina] si restringono più velocemente perché
sono più corti, invece quelli più lunghi [della lampadina lontana]
si restringono lentamente...diventano sempre più dritti
[paralleli]”). Anche lo specchio riflette raggi dritti: il loro
percorso è composto da due tragitti -luce/specchio e specchio/parete-
(“Dritti perché la lampadina
[la luce ] la manda dritto allo specchio e lo specchio [dritto]
all’oggetto”). La lampadina e il Sole mandano raggi in tutte
le direzioni (“I raggi della
lampadina vanno in tutte le direzioni”, “[Il Sole] diffonde e dopo
questi raggi fanno luce dappertutto”). Per indicare le posizioni
relative di ombra e lampadina non basta usare semplicemente termini
come “su, giù, a destra, a sinistra” ma è necessario riferirsi
alla posizione dell’oggetto (“Quando la luce è di qua e l’oggetto è di qua l’ombra si forma
di là”, “L’ombra si forma davanti a te quindi vuol dire che sei
di fronte al Sole, se qua c’è la lampadina e qua l’oggetto, per
formarsi l’ombra [l’ombra] deve essere di fronte [alla
lampadina]”).
Riemerge, ma resta ancora irrisolto, il problema della
presenza o meno di luce nello spazio d’ombra; viene però escluso
che la luce possa curvare.
Per evidenziare il ruolo di strumento di
interpretazione e previsione del modello a raggi, propongo agli
allievi un’esperienza a gruppi. Andiamo in palestra, dove ho
preparato, davanti a due cartelloni bianchi fissati al muro, due
banchi di lavoro con una lampadina, una sagoma quadrata, un rocchetto
di filo, pennarelli colorati, forbici, scotch, sostegni per la
lampadina e per la sagoma. Inizialmente chiedo ai bambini,
divisi in due gruppi di cinque, di disporre la lampadina e la
sagoma in modo da ottenere un’ombra netta sui cartelloni a muro. I
bambini dopo un po’ di tentativi riescono ad ottenere la situazione
richiesta. Chiedo cosa devono fare per essere sicuri di poterla
riprodurre e gli allievi segnano i contorni dei sostegni e anche dei
piedi del banco. A questo punto faccio spegnere la lampadina e dico
loro che dovranno trovare un modo per prevedere esattamente dove si
forma l’ombra del quadrato. Si apre una breve discussione per
decidere cosa si deve fare, che si conclude con la decisione
di utilizzare i fili facendoli partire dalla lampadina e passare dagli
spigoli del quadrato.
I bambini si mettono a lavorare in modo abbastanza
diverso nei due gruppi: nel gruppo 2 tutti i bambini riescono a
mettersi d’accordo sul da farsi, dividendosi i ruoli e lavorando con
molta attenzione; nel gruppo 1 litigano fra loro e lavorano in modo
scomposto. Quando entrambi i gruppi hanno disegnato i contorni
previsti per l’ombra, accendo le lampadine. Mentre la previsione del
gruppo 2 è confermata, l’ombra del quadrato non coincide con i
contorni disegnati dai bambini del gruppo 1. I bambini sono molto
delusi e vorrebbero rifare subito l’esperienza, ma io sottolineo che
non ha senso rifare un esperimento
non riuscito senza
aver cercato di individuare quali errori possono essere stati
commessi. Dopo una breve disamina di quello che può essere successo
nel lavoro del gruppo 1, chiedo a entrambi i gruppi di fare una nuova
previsione, disponendo però l’oggetto in modo che l’ombra non
abbia più una forma quadrata. La nuova situazione non solo serve a
far sì che anche il gruppo 2 sia motivato a continuare il lavoro, ma
soprattutto può consentire una estensione del modello a raggi anche
ai casi in cui l’oggetto non è più parallelo allo schermo (e
quindi perpendicolare all’asse del fascio luminoso).
Alcuni bambini dicono di voler fare un’ombra
triangolare, io li invito a provare e si rendono conto che non è
possibile. Altri pensano di poter trasformare la stessa sagoma che fa
da oggetto in una figura diversa dal quadrato semplicemente ruotandola
intorno ad un asse ad essa perpendicolare. Io faccio notare che un
quadrato resta sempre tale in qualunque maniera sia ruotato, anche se
può essere disposto in maniera tale che la sua figura d’ombra non
sia più un quadrato. I due gruppi svolgono l’esperienza e questa
volta, nonostante le maggiori difficoltà operative legate alla
disposizione della sagoma (entrambi i gruppi l’hanno disposta in un
piano quasi orizzontale), le previsioni di entrambi i gruppi sono
confermate.
Resta da verificare l’applicabilità del modello anche
alla formazione di ombre in luce solare. Prima di fare l’esperienza
ritengo opportuno avviare una discussione orientata sia a fare
previsioni sulle ombre in luce solare, sia a riassumere le conclusioni
raggiunte lavorando con i fili.
Mi rifaccio all’affermazione che i raggi del Sole sono
dritti, riportata da un allievo in un precedente elaborato scritto
(Blocco 5), chiedendo all’allievo cosa intendeva dire. La risposta,
immediata, collega correttamente l’invarianza delle dimensioni
dell’ombra e il parallelismo dei raggi solari
(“I raggi vanno dritti e l’ombra rimane sempre grande come
l’oggetto” [il bambino si aiuta con i gesti indicando una
situazione di perpendicolarità fra superficie dell’oggetto e
direzione dei raggi solari]). Altri bambini ribadiscono la stessa
idea (“Abbiamo detto prima che
se mettiamo un oggetto, sotto l’ombra viene della grandezza
dell’oggetto… quando c’era il Sole ”, “Perché è troppo
lontano e quindi le ombre dovrebbero avvicinarsi almeno a tre metri
dal Sole e almeno l’ombra dell’oggetto verrebbe grande tutta la
terra” ). Chiedo ai bambini cosa succedeva invece con la
lampadina e si apre una discussione nel corso della quale si arriva a
diverse conclusioni. Dalla lampadina partono moltissimi raggi in tutte
le direzioni che si “allontanano” fra loro (“[La luce] è fatta da tanti fili, da tanti raggi”, “Si devono
aprire i raggi”). Una parte di tali raggi forma il fascio di
luce che incontra l’oggetto e non può proseguire, di conseguenza si
forma lo spazio d’ombra, mentre gli altri raggi vanno ad illuminare
tutta la stanza (“[Il fascio
di luce] inizia alla lampadina e finisce là [allo schermo]”, “Il
fascio finisce sul muro...”, “Però illumina solo il bordo
dell’ombra”, “Illumina anche qui e qui e tutta la stanza”).
A questo punto porto i bambini all’esterno e li divido in
tre gruppi per favorire una maggiore partecipazione attiva di tutti al
lavoro. Chiedo di rifare l’esperienza già fatta con la lampadina,
limitandosi a collegare fra loro gli spigoli della sagoma quadrata e
quelli dell’ombra da essa prodotta su un cartoncino bianco posto a
terra, data l’ovvia impossibilità di collegare i fili al Sole. I
tre gruppi lavorano con molto impegno ed organizzazione. Effettuati i
collegamenti, i bambini non hanno difficoltà a riconoscere che i fili
sono paralleli. Chiedo loro dove arriverebbero i fili se potessimo
farli proseguire oltre la sagoma mantenendo la loro direzione.
“Al Sole”, rispondono i bambini, e
giustificano il parallelismo dei fili riferendosi al fatto che il Sole
“E’ troppo lontano”.
Tornati in classe per discutere sulle osservazioni fatte,
due bambine notano casualmente, mentre scuotono uno straccio intriso
di polvere di gesso, che dalla finestra entra un fascio di luce solare
diretta che la polvere di gesso rende visibile e richiamano
l’attenzione dei compagni. Ci si diverte a studiare la forma
tridimensionale del fascio, chiaramente diversa da quella del fascio
del proiettore, e la forma della “figura di luce” prodotta dall’intersezione del fascio col
pavimento e ci si sforza di trovare parole adeguate per descriverle (“Un
fascio di luce fatto di polvere”, ”Da un lato è un po’ più
largo e da un lato è un po’ più stretto [riferendosi alla diversa
altezza delle superfici piane che delimitano il fascio di luce]”,
“E’ un rombo allungato…la figura di luce”) . Nel frattempo
due bambine, guardando attraverso la finestra, si rendono conto che le
ombre delle sagome quadrate si sono modificate (“Già
l’ombra fuori si è restrinta”) e tutti vogliono andare fuori
per vedere cosa è successo.
La modifica delle ombre è immediatamente attribuita
al fatto che il Sole si è spostato ma, quando chiedo agli allievi se
collegando nuovamente la sagoma e l’ombra si aspettano che i fili
siano ancora paralleli, solo alcuni rispondono di sì. L’esperienza
viene rifatta e tutti constatano di nuovo il parallelismo dei fili,
arrivando alla conclusione che il Sole manda raggi paralleli
indipendentemente dalla sua posizione.